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LETTERATURA    della
CUCINA



 

L’uomo è ciò che mangia.
(L. Feuerbach)















































































































 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Le origini

Il più antico libro di cucina che ci sia pervenuto fu redatto tra il I ed III terzo secolo dopo Cristo. La prima edizione stampata fu pubblicata a Venezia alla fine del XV secolo, sulla base di vari manoscritti trasmessi e copiati durante il Medioevo. Questo libro ha per titolo sia Ars magirica, ovvero L’arte del cuoco (Mageiros in greco significa appunto cuoco), sia Appicius culinarius sia, più frequentemente, De re coquinaria, vale a dire Delle cose di cucina.

E’ difficile identificarne l’autore, di nome Apicio, e la difficoltà non dipende dal fatto che non si trova nessun Apicio nella storia di Roma, ma dal fatto che se ne trovano troppi. Il maggior indiziato è comunque Gavius Apicius, nato nel 25 a.C., buongustaio di cui vari autori, Tacito, Svetonio, Plinio e Seneca, ci parlano con abbondanza di particolari. Gavio Apicio dava banchetti suntuosi e teneva corsi gratuiti di gastronomia; fu pure l’inventore del procedimento di ingozzare le scrofe con fichi secchi e vino al miele allo scopo di ingrassarne il fegato e creò ricette per preparare la lingua di fenicottero, lo stinco di cammello e il fegato di triglia. Il suo merito principale non si identifica però in queste stravaganze ma, piuttosto, nel modo in cui  ha intelligentemente codificato la cucina dell’antichità, sia greca che romana, la più lussuosa come la più popolare.

Per quanto riguarda la pasticceria, Apicio ci ha lasciato alcune ricette che permettono di immaginare abbastanza bene in che cosa consistessero i dolci del suo tempo. A base di componenti come i datteri, noci, pinoli, farro, farina e soprattutto miele, questi dolcetti hanno caratteristiche di riconoscibilità, che si sono consolidate e tramandate nel tempo.

Le ricette di Gavio Apicio, segnano infatti tappe fondamentali della storia della pasticceria moderna, come i croccantini, i biscotti e perfino l’omelette, che allora prendeva il nome di “ schiuma d’uova al latte”.

Furono gli italiani i primi a trarre dall’antichità nuova ispirazione per i loro banchetti, e sempre gli italiani a compiere la felice fusione fra la robusta cucina delle varie regioni con i principi culinari importati dai crociati, oltre a dar vita alla raffinata cucina che fu in seguito esportata nel resto d’Europa. Italiano fu anche il primo cuoco ad avere le proprie ricette raccolte in un volume intitolato De onesta voluptate et valetudine (l’onesto piacere e la buona salute).

Il libro in questione, pubblicato a Roma nel 1474, era opera di un filosofo e letterato a nome Platina, mentre le duecentocinquanta ricette in esso contenute appartenevano ad un cuoco, Maestro Martino.

Di lui sappiamo molto poco: che è stato attivo tra il 1450 ed il 1475, che era nativo probabilmente di Como e che lavorò dapprima presso il Patriarca di Aquilea e poi a Roma.

Maestro Martino è stato il primo a darci la ricetta del risotto allo zafferano, meglio conosciuto come Risotto alla Milanese, degli involtini di vitello, di numerose minestre e, per quanto riguarda i dolci, dei crespelli fiorentini, oggi noti col nome di cenci o Chiacchiere.

Ma la fama di questo cuoco è legata soprattutto ai ravioli, il cui termine deriva probabilmente da rabiole, che in dialetto ligure significa avanzi. Il ripieno, fatto appunto con ogni tipo di carne o di verdure, un tempo veniva fritto come le frittelle. Il primo a racchiuderlo in un involucro di pasta, ottenendone i ravioli come noi li conosciamo, fu proprio Maestro Martino, che ne ideò anche una variante dolce, i caliscioni. Questi erano dei grossi ravioli di pasta sfoglia, riempiti di marzapane e fritti in padella oppure cotti al forno. Il nome originale si è poi trasformato a Napoli e proprio nelle nostre zone in quello di calzone , diventando una preparazione esclusivamente salata, e, in Francia, esattamente ad Aix- en- Priovence, in quello di calissons, non più pasta ripiena ma piccole losanghe confezionate con un impasto di mandorle, zucchero, sciroppo e acqua di fior d’arancio.
Tra il 1540 ed il 1570 si impone il celebre cuoco Bartolomeo Scappi, al servizio di cardinali ed infine di papa Pio V. Scappi sta alla cucina come Michelangelo sta alle belle arti.

Il suo manuale di culinaria, Opera dell’arte del cucinare, per la bellezza della stampa, la metodica presentazione e comprensibilità, costituisce un tipico esempio della lineare eleganza dell’Alto Rinascimento.

Ci vollero altri due secoli prima della comparsa, in Francia, di un libro altrettanto autorevole, e mai nessuno ha potuto competere con Scappi per la serie di vivaci e scrupolosamente esatti disegni illustranti la cucina ideale fornita dell’attrezzatura indispensabile al cuoco provetto.

Il testo è esauriente quanto le illustrazioni, e le ricette sono così precise nei particolari e così chiaramente elencate, da fare invidia a parecchi moderni libri di cucina.

Le numerose ricette per le torte, che Scappi chiama tortiglioni, rivelano quanto questo cuoco fosse esperto in pasticceria. Una ricetta intitolata Per fare tortiglione ripieno, confezionata con pasta di pane ripiena di frutta secca e alternata a strati di burro, ricorda da vicino certe torte da servire con il tè. Scappi è stato l’ideatore degli odierni crostini e crostoni, che però chiama con il nome di crostate o pan ghiotto. Certe sue preparazioni, su fette di pane fritto o abbrustolito, possono essere eseguite, con minime varianti, anche oggigiorno.

In definitiva ,Bartolomeo Scappi può essere inserito, a buon diritto, fra le pietre miliari dell’arte del dolce e del salato.

In questo mondo non è  la vostra nazionalità a farvi quali siete, bensì il vostro talento, afferma Francesco Leonardi nel suo più importante testo culinario, L’Apicio Moderno.

Ed egli fece certamente buon uso del suo talento: la lunga carriera di leopardi, che va dal 1740 al 1800, passa dall’eleganza di Napoli alla Francia monarchica, alla San Pietroburgo di Caterina la Grande fino agli anni della Rivoluzione Francese e delle guerre Napoleoniche.

Data la supremazia della cucina francese nella moda culinaria dell’epoca, qualsiasi opera di cucina doveva per forza di cose basarsi su tecniche e ricette francesi.

Tuttavia, L’Apicio Moderno è molto di più che non una semplice imitazione degli equivalenti francesi: con le sue tremila ricette raggranellate da una mezza dozzina di paesi e i suoi capitoli di interesse culinario generale, è piuttosto una vera e propria enciclopedia. Nonostante la sua internazionalità, Leonardi resta però un italiano che scrive per i suoi compatrioti.

Grazie ai suoi cinquant’anni di esperienza in Italia e all’estero, è in grado di adattare liberamente ricette straniere, servendosi però di ingredienti tipicamente italiani.

Leopardi, fatto basilare per la cucina italiana, è il primo cuoco a dar notizia di come venissero usati i pomodori. La sua ricetta del sugo di pomodoro non è cambiata di una virgola fino ad oggi; addirittura Leonardi vanta come propria invenzione il matrimonio fra la pasta e il pomodoro.

A Leopardi dobbiamo, tra l’altro, la prima ricetta del calzone, che chiama Rissola alla napoletana e di una focaccia sottile al pomodoro avente tutte le caratteristiche della celeberrima  P I Z Z A.

L’ASCESA DELLA PIZZA

Come abbiamo visto, qualcosa di simile all’attuale pizza esisteva  già ai tempi di Leonardi, ma l’evoluzione di questo piatto, povero sì ma prelibato e sempre più apprezzato anche dalla nobiltà, prende tutto l’Ottocento.

 Pare che Ferdinando IV facesse cuocere le pizze, confezionate dai cuochi di corte, addirittura nei forni di Capodimonte, da dove uscivano le famose ceramiche.

La pizza, in  quell’epoca, veniva preparata in sole due versioni: al formaggio e al pomodoro. La storia, o la leggenda, ci dice che il primo ad unire i due ingredienti fu nel 1889, il pizzaiolo Raffaele Esposito, in occasione della visita a Napoli dei sovrani d’Italia.

Il fantasioso e patriottico pizzaiolo preparò una pizza tricolore, con il bianco della mozzarella, il rosso del pomodoro e il verde del basilico, chiamandola pizza Margherita in onore della prima regina d’Italia, cucinata nel forno dell’attuale pizzeria Brandi ubicata all’inizio di via Chiaia a Napoli.

Fantasia o realtà ?

Probabilmente , come sempre succede, un po’ tutt’e due…..

L’IMPASTO BASE

Oggigiorno è facile trovare in vendita quest’impasto surgelato. Ma avendo però tempo e voglia, qualche volta si può provare a prepararlo con le proprie mani.

Indubbiamente risultato e soddisfazione saranno maggiori.

Per semplicità, abbiamo uniformato le dosi all’impiego di 500 g di farina.

Pasta per pane

Ingredienti:

500 grammi di farina bianca

25   grammi di lievito di birra

½    litro di acqua tiepida

10   grammi di sale

Preparazione:

Sulla spianatoia disponete a fontana la farina ed il sale, e nel buco versate poca acqua tiepida in cui sarà stato sciolto il lievito sbriciolato. Impastate a lungo e bene, aggiungendo gradualmente l’acqua rimasta, poi formate una grossa palla che metterete a lievitare in un posto caldo dentro una ciotola, unta di olio o di burro e coperta con un tovagliolo.

Dopo tre ore l’impasto dovrebbe aver raddoppiato il suo volume.

A questo punto preparate ciò che vi serve e , prima di infornare, lasciate lievitare la vostra preparazione ancora una ventina di minuti.

La pasta per il pane, oltre che per il pane, serve anche per pizze e focacce.


PIZZA NAPOLETANA AL TRANCIO

La pizza al trancio è l’unico modo per poter servire questo famoso piatto accontentando molti commensali contemporaneamente. Le occasioni non mancano di certo : cocktail, pranzo in piedi e buffet sono le più indicate.

 

Ingredienti

400 g di pasta per pane

250 g di mozzarella

150 g di polpa di pomodoro ristretta

10  filetti di acciuga

Olio di oliva

Origano

Pepe

 

Preparazione

Lavorare la pasta con l’aggiunta di un po’ di olio e stenderla in una teglia di 30 cm di diametro.

Condire la superficie della pizza con la polpa di pomodoro, i filetti di acciuga, l’origano e il pepe, cospargendo il tutto di olio.

Infornare a 220 ° C per circa 10 minuti.

Togliere dal forno, ricoprire la pizza con la mozzarella tagliata a fettine e rimettere in forno a completare la cottura.

Sfornare e servire dopo qualche minuto.


Valori Nutrizionali   totali

Protidi                91

Lipidi                 53

Glucidi              213

Kcal              1693

CHIACCHIERE

A carnevale, la festa per eccellenza dei bambini, non si può rinunciare a questi tipici dolci apprezzati, a dire il vero anche dai grandi.

Ingredienti

250 g  di farina bianca

50   g  di zucchero

25   g  di burro

2     uova

vaniglia in polvere

liquore Marsala

zucchero a velo

olio per friggere.

 

Preparazione

Mischiare farina, zucchero e vaniglia. Disporre a fontana e mettere al centro le uova ed il burro ammorbidito.

Impastare bene gli ingredienti aggiungendo un po’ di Marsala se la pasta dovesse risultare troppo consistente.

Tirare la pasta con il matterello in modo da formare una sfoglia piuttosto sottile e ricavare da questa dei rettangoli di circa 8 x 12 cm, usando una rotellina dentata. Fare nel mezzo di ogni rettangolo tre tagli, lasciando le estremità unite. Riempire a metà una casseruola con l’olio; quando sarà diventato bollente, calare due o tre chiacchiere per volta, facendolo dorare da entrambi i lati.

Fatele sgocciolare su di una carta assorbente e servire spolverizzando con zucchero a velo.

Valori nutrizionali

                        Totali

 

Protidi                40

Lipidi                 44

Glucidi              256

Kcal               1580


PICCOLA STORIA DEL FORMAGGIO


Il primo documento ritrovato, il cosiddetto fregio della latteria, è conservato al British Museum di Londra.

E’ un bassorilievo numerico, risalente al terzo millennio avanti Cristo, che riassume le principali fasi della produzione del formaggio partendo dalla mungitura.

La varie operazioni venivano compiute da sacerdoti.

Cosa racconta la mitologia

Aristeo, figlio del dio Apollo e di Cirene, imparata l’arte dal centauro Chitone, decise di ingraziarsi il genere umano insegnandogli e quagliare il latte. Il suo allievo prediletto, Camole, re dei Lidi, inventò a sua volta la cagliata, la ricotta e il lattemiele.

 

Il formaggio nell’età greca

L’età greca segna il trionfo del formaggio, che viene preparato con latte di capra e di pecora, dal momento che i Greci avevano una strana avversione per il latte di mucca, ritenuto chissà perché, malsano. Sono famose le diatribe, aventi per oggetto il formaggio, fra epicurei e pitagorici, gli uni fautori della cucina ricca, gli altri di quella povera. Il formaggio era consumato sia come cibo che come condimento, proprio come ai giorni nostri.

A tavola rientrava tanto negli antipasti quanto come degustazione a fine pasto, talvolta poteva essere una delle portate principali.

Ippocrate ne dava il seguente giudizio: “ il formaggio è forte, nutre, riscalda e lega; è forte perché è il più prossimo all’origine di una creatura; è nutriente perché rimane in esso la parte più pingue del latte; è riscaldante perché è grasso; è legante perché è coagulato al caglio.”

 

Il formaggio nell’età romana

I Romani , non solo introdussero nella produzione del formaggio il latte vaccino e bufalino, ma con loro l’industria casearia diventò una redditizia attività economica. I formaggi assunsero, per mezzo di stampi di legno o di bosso, forme fantasiose e vennero consumati freschi o stagionati, quasi sempre però affumicati. Era il cibo di tutte le classi sociali,indispensabile soprattutto per i poveri, per i quali era pressoché impossibile cucinare in casa. Rientrava anche nella razione del legionario, insieme al grano, alla carne di montone, al lardo e al vino.

 

Il formaggio nei secoli bui

La caduta dell’Impero Romano segna l’inizio, per molte attività, di un periodo scuro. Per quanto riguarda il formaggio registriamo però due fatti positivi. Il primo concerne l’incontro fra tecniche casearie greco – romane con quelle dei popoli invasori (goti, vandali, gepidi, alemanni, longobardi, franchi) .

La leggenda vuole che Attila amasse molto il formaggio e se ne facesse preparare addirittura con latte di donna.

Il secondo fatto positivo riguarda Rutilio Tauro Emiliano Palladio che, alla fine del IV secolo, scrive un trattato intitolato Agricoltura o de rustica. In esso vengono definiti i canoni da osservare nella produzione del formaggio, punto di riferimento per quasi tutto il Medioevo.

 

Il formaggio nel Medioevo

Pantaleone da Confidenza, medico vercellese, nella sua Summa lecticinorum, ci ragguaglia dettagliatamente sui formaggi in uso in Italia  durante il Medioevo. Da lui veniamo a sapere che, a quell’epoca, esistevano già molti formaggi in auge ancora oggi e che, per esempio, nessuno di essi poteva rivaleggiare in bontà con il piacentino, annotando poi che codesto formaggio piacentino da alcuni è detto anche parmigiano, perché anche a Parma se ne produce di analogo, non molto diverso per bontà.

 

LA MOZZARELLA

LA STORIA della mozzarella di bufala è certamente avventurosa. La tecnica di lavorazione sembra essere nata nell’odierno Molise, nei pressi delle fonti del fiume Volturno, grazie alle mani esperte di monaci benedettini. Ed è un’ipotesi plausibile se si pensa che anche l’importazione del bufalo mediterraneo viene attribuita alle schiere longobarde di Aginulfo, risalente al 596 e proseguita poi dagli stessi Longobardi nel VII secolo, dagli Arabi nell’VII secolo.

Monsignor Alicandri, nel XIX secolo rinvenne un documento nell’Archivio Episcopale della Chiesa Metropolitana di Capua, dal quale si evince come nel XII secolo “una mozza ed un pezzetto di pane” era la prestazione che i monaci benedettini del monastero di San Lorenzo in Capua davano al capitolo Metropolitano.

Il Capitolo, ogni anno, e per antica tradizione, nella quarta fiera delle legazioni, si recava in processione nella chiesa di San Lorenzo. Analoghe e coeve fonti ecclesiastiche riferiscono di un simile uso anche nella città di Salerno. Da questi documenti, quindi, si apprende come la “mozza” fosse entrata nel costume rituale ecclesiastico già intorno al 1100.

I legami dei monaci benedettini con la città longobarda di Salerno, dove per altro già il monastero e l’Abbazia di san Vincenzo al Volturno avevano delle proprietà, avrebbe potuto favorire l’espandersi della lavorazione della mozzarella nella piana del Sele. Oltretutto i territori di cui sopra sono legati anche dalla presenza della mandrie di bufali.

 

LA LAVORAZIONE porta il latte a circa 35° C, con aggiunta di fermenti lattici e caglio liquido. Dopo la rottura della cagliata, si lascia maturare la pasta per 4 ore sotto siero caldo, dopo averne asportato la metà. Si fila poi la pasta in grosse tinozze di legno con acqua bollente a 100° C , dal peso equivalente alla quantità di pasta da filare.

Si porziona la pasta filata e i pezzi vengono messi a rassodare in acqua fredda e successivamente passano nelle vasche di salatura. Il prodotto finito viene presentato sul mercato in due modi:

-         incartato ed immerso costantemente nel liquido di governo,

-         in buste forate che lasciano circolare il liquido.

Le forme sono rotonde;

-peso 0,5 – 1 kg; 

-crosta liscia e lucente;

-consistenza elastica e poi sempre più fondente;

-pasta di coloro bianco perlaceo a sfoglie sovrapposte che tendono a scomparire negli strati sottostanti;

-sapore gradevolmente acidulo con vago odore di muschiato.

 

La Mozzarella viene prodotta durante tutto l’anno.

 

Valori nutrizionali

            per 100  gr.

 

Grassi         16

Proteine      20

Zuccheri       5

Calorie      245  

 

MOZZARELLA IN CARROZZA

 Ingredienti per 4 persone:

8        fette di pan carrè

300       gr. di mozzarella

2          uova

3          cucchiai di farina bianca

2          cucchiai  di latte

olio per friggere

sale:

 

Preparazione:

Asportare la crosta alle fette di pan carré. Affettare la Mozzarella e mettere le fette su 4 fette di pane. Coprire con le altre fette di pane e premere leggermente con le mani. In un piatto fondo, sbattere le uova con il latte ed una presa di sale. Infarinare leggermente le fette di pane e passarle nell’uovo, lasciandole inzuppare.

Scaldare abbondante olio in una padella e friggere le fette di pane finché non saranno dorate da ambo le parti. Asciugarle su un foglio di carta assorbente e servirle caldissime.
                                                                                                                

 Valori nutrizionali

Protidi     25

 Lipidi       22

Glucidi      52

K cal       506  

 

CACIOCAVALLO   PODOLICO

Origine, zona e tecnica di produzione. Tipico formaggio strettamente legato al bovino di razza Podalica: il latte della Podalica è utilizzato in via esclusiva, perla produzione di questo tipico formaggio. L’area di produzione tende a coincidere con quella dell’allevamento del bovino: in provincia di Avellino  si evidenziano i contrafforti dei Monti Picentini mentre nel salernitano si sale nel Cilento, sugli Alburni,nel Vallo di Diano, nell’alto sele e sui nostri Monti Lattari.

Dalle Podaliche, munte solo al mattino, si ottiene il latte che è riscaldato a 40° e versato nel tino di legno. Si aggiunge poi il caglio di capretto preparato in azienda. Dopo un’ora si effettua la rottura  della cagliata con un bastone di legno (detto rondella)  fino a portarla in grumi delle dimensioni di un chicco di mais.

Con un altro bastone (detto ruotolo) con un movimento particolare, si fa depositare la cagliata sul fondo. Si toglie il siero che, riscaldato a 50°, viene di nuovo aggiunto alla cagliata per favorirne l’uscita del grasso: Si ritoglie il siero e si lascia maturare per due ore: La cagliata viene così tagliata a fette, bagnata con acqua bollente e portata a filatura con un terzo attrezzo (detto menatola). Si passa quindi alla formatura dando a due chili e mezzo circa di prodotto filato la caratteristica forma. I caciocavalli podolici così ottenuti si immergono in acqua fredda durante la notte ed al mattino seguente vengono posti in salamoia per tre giorni: Legati poi in coppia vengono appesi alle pertiche per 120 giorni, periodo ideale di stagionatura.

Elementi di diversità. Il caciocavallo podalico è prodotto anche fuori dalle aree di allevamento. Ma vanno considerate aree crù di produzione quelle dove la bovina Podalica è allevata ancora oggi allo stato brado e attraverso la tecnica della transumanza. Il Caciocavallo Podalico è legato alla transumanza anche nel sapore: in estate e autunno , quando le bovine sono portate sui monti, il formaggio assume caratteristiche aromatiche che si esaltano nella stagionatura del formaggio.

Durante l’inverno, il pascolo in pianura, meno vario, conferisce al caciocavallo aromi più marcati. Elementi decisivi di diversità sono l’esclusivo utilizzo di latte proveniente da bovine di razza Podalica e un uso largamente tradizionale degli strumenti tradizionali del casaro.

I sensi. Pasta di colore paglierino, con rare occhiature, il caciocavallo Podolico al tatto risulta semiduro e omogeneo. Compatto al taglio, profuma di latte e fieno. Al palato risulta leggermente granuloso e raramente piccante. Servito in fette da due centimetri di spessore o a scaglie, se molto stagionato, si accompagna con castagne arrostite, funghi porcini e buoni vini rossi.

PROVOLONE DEL MONACO

Origine, zona e tecnica di produzione .Prodotto in provincia di Napoli, principalmente sui Monti Lattari che dominano a sud l’intero territorio dell’Agro Nocerino, tipico del comune di Agevola e nelle zone basse della penisola di Sorrento.

La denominazione è dovuta all’uso dei casari di proteggersi, durante i trasporti via mare tra Sorrento e Napoli, a mezzo di lunghi mantelli, simili al saio del monaco.

I casari lavorano separatamente il latte della mungitura del mattino e quello della sera. Il latte viene riscaldato a 35°, dopodichè  viene aggiunto il caglio in pasta di capretto nella proporzione di 30 grammi per ogni 100 litri di latte.

 A coaugulazione avvenuta si attendono 30-40 minuti prima di rompere la cagliata con uno spino di legni detto “sossa”:

La cagliata ben rotta, viene separata dal primo siero e lasciata riposare per 15-20 minuti;successivamente viene sottratta la restante parte del siero e si procede ad una seconda rottura della cagliata che viene frantumata in granuli delle dimensioni di un chicco di mais.

L’impasto lavorato con un bastone di legno per 10 minuti, viene avvolto in un telo, dove lo si lascia colare per quasi un’ora. La pasta, così ottenuta, viene fatta riposare per 2-4 giorni .

Dopo la prova della filatura, la pasta viene nuovamente sminuzzata e cotta con acqua bollente.
Si procede quindi alla filatura ed alla formatura, passando poi i provoloni nella salamoia.
A questo punto, il provolone viene imbracata con quattro corde ed appeso in cantine o grotte di stagionatura, ove permarrà dai 4 ai 18 mesi.

Elementi di diversità: I pascoli utilizzati nel periodo estivo – autunnale sono quelli dei Monti Lattari, dove l’altitudine determina una composizione floristica ricca di essenze che apportano numerosi aromi al latte che si esaltano durante la maturazione del formaggio.

Per la materia prima si segnala l’utilizzo della bovina agerolese, che si accompagna a quello di Pezzata Rosa e Frisona.

I sensi: il Provolone del Monaco si presenta con crosta rigata di colore marrone chiaro – rossiccia: la pasta è paglierina con rare occhiature.
Al tatto essa risulta semidura ed omogenea, compatta al taglio.
L’odore è di latte e di fieno.
In bocca è leggermente granuloso, poco piccante se stagionato.
Servito a fette di spessore non superiore a due centimetri, il Provolone del Monaco è tradizionalmente consumato durante la Pasqua e si accompagna al tipico salame napoletano, il più delle volte prodotto in modo artigianale.

I VINI
La storia della vite e del vino ha origini remote:La testimonianza più antica circa la conoscenza e l’utilizzo della nobile bevanda ottenuta dalla fementazione del succo di uva, risale al IV millennio

a.C.

La Campania ha rappresentato uno dei principali “centri” per lo sviluppo e l’evoluzione della vite e del vino.

Nelle colonie campane della Magna Grecia il vino ebbe un posto di primo piano come è testimoniato dalla cosiddetta “tomba del tuffatore” (Paestum V sec. a.C.), unico esempio di pittura figurata greca, dove su quattro lastre riproducenti alcune scene di un banchetto sono evidenziati gli effetti che il vino provoca sui commensali.

La più interessante zona archeologica del mondo, quella di Ercolano e di Pompei, è stata infatti una mirabile fonte di testimonianze circa gli usi ed i costumi dell’epoca, ed i simboli ed i riferimenti enoici sono sicuramente tra i più ricorrenti. Le raffigurazioni, le sculture e gli oggetti di artigianato rinvenuti evidenziano il ruolo predominante che l’attuale territorio campano ha avuto nello sviluppo e diffusione della  “cultura del vino”. I vini di pregio venivano conservati in particolari anfore di terracotta, i doli, chiuse da pittalicum su cui erano annotate la zona di origine delle uve e l’anno della vendemmia . Già da allora si affermava quindi il concetto di denominazione di origine con l’importanza del territorio nei confronti della qualità del vino. Anche il servizio era alquanto accurato: la mescita veniva effettuata da haustores utilizzando vasellame specifico assai raffinato. Non è un caso che i vini bevuti dagli imperatori erano vini campani.: i vitigni furono subito selezionati in base agli attributi qualitativi, scartando le varietà non propense ad originare vini di qualità.

La Vitis ellenica, la Vitis apiana, l’Aminea gemina altro non sono che i progenitori degli attuali Aglianico, Fiano, Greco, grandi vini DOC della Campania .Oppure la Falangina, vitigno bianco che secondo alcuni deriva il nome dal termine romano falanghe usato per indicare il palo al quale veniva appoggiato nel sistema detto puteolana.

Oggi la regione produce ben 20 vini DOC di cui ben 3  a Denominazione di Origine Controllata e Garantita : Taurasi ,Greco e Fiano, prodotti in aree a forte vocazione viticola con disciplinari di produzione che impongono basse rese, per una base varietale rigorosa e fortemente vincolata alla storia e al  territorio.

Il vitigno particolarmente coltivato sulle colline che dominano l’Agro è da segnalare soprattutto il Piedirosso che viene definito anche “ Pèr ‘e Palummo” per la sua colorazione rossa come il piede di un piccione, che assumono i pedicelli in prossimità della maturazione dell’uva. Vitigno vigoroso, ama le potature lunghe.

La produzione è abbondante, ma non costante, elevata è pure la resistenza all’oidio e ai marciumi. Il grappolo è tozzo, di media grandezza e spargolo. Il vino è di buona gradazione alcolica, rosso rubino intenso, tannico, di corpo fragrante. Con la maturazione e l’invecchiamento acquista un gradevole profumo di violetta. Il  Piedirosso ha la sua massima diffusione a S. Egidio, Corsara e Tramonti e da origine a diversi DOC campani, da preferire con piatti di arrosto di carne bovina ovina e suina, e con formaggi di media stagionatura.

L'alimento è la sostanza che, introdotta nell’organismo umano e animale, sopperisce al suo dispendio in forza viva , ossia fornisce i materiali di reintegrazione necessari per l’accrescimento e per il normale svolgimento di funzioni fondamentali per l’individuo e per la specie.
Esso può variare a seconda delle tradizioni gastronomiche del proprio paese o per curiosità di provare nuovi sapori; c’è chi è sensibile alle mode alimentari e chi non tradirebbe mai le ricette della mamma. Le opinioni, i gusti, sono contrastanti, ma nessuno, ormai, è più disposto a rinunciare al “fattore qualità”: un rapporto indissolubile tra alimentazione e salute.

Domande & Risposte

Si fa un gran parlare di qualità, ma che cos’è veramente la qualità?
Fino a poco tempo fa il consumatore era attento soprattutto all’apparenza, ritenendo erroneamente che “bello” fosse uguale a “sano”. Ora l’attenzione si è spostata sulle qualità dietetiche e su quello igienico-sanitarie dei prodotti, compresa l’assenza di contaminazione chimica dovuta ai residui dei fitofarmaci.

Ma cosa sono i fitofarmaci?
Il fitofarmaco è uno tra i tanti disruptori endocrini che, insieme agli estrogeni, ai fitoestrogeni, ai metalli pesanti, ai plastificanti e ad altre sostanze di sintesi, potenzialmente interferisce con il sistema endocrino umano e animale.
Ciò che finisce nei nostri piatti deve essere sano e sicuro, e, possibilmente, se ne devono conoscere storia e origini. I consumatori sono sempre più esigenti e interessati ai passaggi che intervengono da quando il prodotto lascia i campi coltivati a quando arriva sugli scaffali dei supermercati.
La rintracciabilità di un prodotto, ossia l’identificazione di tutti i suoi passaggi, considera tutta la catena che và dalla produzione, alla trasformazione, al trasporto e alla distribuzione degli alimenti e dei mangimi , per consentire l’individuazione di eventuali pericoli per la salute umana. I garanti più importanti della salubrità degli alimenti sono gli agricoltori e l’industria che, dovendo far fronte alle esigenze dei consumatori, assicurano le informazioni relative alle origini geografiche di un prodotto, al tipo di allevamento o di alimentazione.
Tutti sappiamo come, purtroppo, la maglia dei controlli nel nostro Paese sia molto larga e come siano rari, specialmente al Sud, i campionamenti e le analisi effettuati sugli alimenti.

      Oggi i consumatori chiedono di potersi fidare della qualità del prodotto, attraverso il marchio e l’etichetta.
  

        La sicurezza alimentare è stata posta al centro dell’azione dell’Unione Europea dal 2002.

Le più conosciute, tra le 136 denominazioni regolamentate italiane, sono:
- le DOP (Denominazione di Origine Protetta), sostanzialmente identiche alle meglio conosciute DOC (Denominazione di Origine Controllata). Esse vengono richieste ed utilizzate per i prodotti originari dell’area geografica indicata nel marchio, e il ciclo di trasformazione del prodotto avviene all’interno della stessa area;
- le IGP (Indicazione Geografica Protetta). Queste sono sempre collegate ad un nome geografico con la differenza, rispetto alle DOP, che solo parte del ciclo di produzione deve necessariamente avvenire all’interno dell’area geografica indicata;
- le Attestazioni di Specificità. Esse sono indipendenti dal luogo di produzione, ma indicano e garantiscono un prodotto ottenuto con una particolare tecnica o a partire da determinate materie prime (ad esempio carne di bovini alimentati con erba).

 

         Oltre a questi marchi di tipicità sono molto più importanti le garanzie delle produzioni biologiche, assicurate dal marchio “biologico”.
        La Campania è insieme alla Sicilia al quinto posto tra le regioni italiane con 11 prodotti agroalimentari registrati (9,5%) di DOP e IGP.

DOP o Denominazione di origine protetta Sigla che viene attribuita a prodotti alimentari che abbiano profonde radici nel contesto culturale e tradizionale di una località. Il marchio DOP, riconosciuto dalla Comunità Europea, garantisce che la produzione della materia prima, nonchè tutto il processo di trasformazione della stessa fino all'ottenimento del prodotto finale, avvengano in un unico luogo. In Italia sono diversi i prodotti che si fregiano del marchio DOP; fra di essi, vi sono salumi tipici, come il prosciutto di Parma e quello di San Daniele, e alcuni formaggi, come il parmigiano reggiano, il montasio e il pecorino sardo.

IGP o Indicazione geografica protetta Riconoscimento che l’Unione Europea conferisce a quei prodotti agricoli ed alimentari per i quali una determinata caratteristica (di qualità, di reputazione ecc.) dipende dall’essere originario di una determinata zona geografica. Per ottenere la IGP almeno una fase del processo di produzione deve avvenire in una particolare area geografica e il produttore deve attenersi alle regole produttive stabilite dal disciplinare di produzione; il rispetto di tali regole è garantito da un apposito organismo di controllo.  

IL DECALOGO DEI CONSUMATORI SULLA SICUREZZA ALIMENTARE

 

1)      Leggi sempre l’etichetta dei prodotti alimentari ed il cartello degli ingredienti esposto negli esercizi pubblici.

2)      Tutti gli ingredienti utilizzati sono indicati sull’etichetta ed elencati in ordine decrescente di quantità presente nel prodotto. Anche gli additivi sono considerati ingredienti ed essendo presenti in quote minime, sono citati per ultimi.

3)      Controlla le date di durabilità o di scadenza del prodotto prima dell’acquisto e consumalo entro il termine consigliato.

4)      Sull’etichetta la lettera “E” seguita da un numero indica che nel prodotto è presente un additivo autorizzato dall’UE.

5)      Segui sempre le istruzioni per l’uso indicate sulle confezioni, comprese le modalità di conservazione, dal momento dell’acquisto fino al consumo.

6)      Mantieni sempre i prodotti refrigerati e quelli surgelati alla temperatura indicata sull’etichetta e riponili, subito dopo l’acquisto, nel frigorifero o nel congelatore.

7)      Osserva con la massima cura l’igiene della tua cucina ed i metodi di cottura più idonei.

8)      Ricorda che i prodotti dichiarati “biologici” o “geneticamente modificati” devono rispettare particolari modalità di etichettatura stabilite da norme europee e nazionali.

9)      Sappi che i controlli sono eseguiti dalle aziende e dalle autorità per verificare la sicurezza degli alimenti e per decidere il ritiro di quelli eventualmente difettosi.

10)  Rivolgiti ad Associazioni dei consumatori e ASL per maggiori informazioni ed assistenza in fatto di sicurezza alimentare.      

L’ESTRATTORE SOXHLET

Un dispositivo soxhlet è usato per l’estrazione delle resine, di olii pesanti e di resinoidi, nessuno dei quali è particolarmente volatile e scarsamente adatti all’estrazione con vapore. Queste sostanze sono estratte in modo efficiente impregnandole in un solvente e utilizzando appunto un soxhlet.

Il solvente è riscaldato nella caldaia in basso ed  il vapore puro sale attraverso il tubo di bypass, unico percorso possibile, e raggiunge la parte superiore del contenitore di soxhlet, che è chiuso in basso. Il vapore continua a salire fino a che non viene a contatto del condensatore, allora il liquido gocciola giù nel ditabile (sostituibile) che contiene il materiale dal quale desideriamo estrarre le sostanze. Questo ditale è poroso, in modo che trattiene non solo il prodotto solido, come semi o bacche, ma agisce anche da filtro in modo che il materiale non blocchi il tubo del sifone. Quando il livello del liquido nel contenitore di soxhlet raggiunge lo stesso il livello della parte superiore del sifone, il liquido contente i residui dissolti è travasato nuovamente dentro la caldaia.

Il livello di liquido nel ditale diminuisce più lentamente del liquido circostante, poiché il liquido nel ditale deve impregnarsi dai lati porosi e questo accade solo quando il livello del liquido nel contenitore  scende sotto il livello nel ditale.

Il  risultato finale è  che il materiale nel ditale è sottoposto ad un ripetuto impregnamento del solvente puro, e questo rende il processo molto più efficiente di un’impregnazione continua in un  solvente che in cui la concentrazione dei residui estratti  aumenta costantemente, giacché forma uno strato che ne impedisce progressivamente la liberazione della matrice.


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